L’AI per progettare l’experience design
Se, a cavallo dell’Era del Cliente, il Marketing moderno si distingue per la sua peculiarità di essere sempre più data-driven con la sua volontà di raccogliere dati dai consumatori per creare strategie di comunicazione one-to-one in grado di adattarsi alle esigenze specifiche dei diversi target, è grazie alla tecnologia – in questo caso l’Intelligenza Artificiale (AI) – se, maneggiando ogni giorno questi grossi quantitativi di dati (big data), riusciamo a dare loro un senso.
Questo senso restituito ai dati, che vengono analizzati ed elaborati da parte dell’AI, ci aiuta – come fa presente Umberto Basso, Managing Director di AKQA - nella progettazione dell’experience design, ovvero dell’esperienza che l’utente sperimenta lungo il suo customer journey attraverso i punti di contatto con cui comunica il Brand.
Due sono gli aspetti da tener presente, che questa interazione sia per prima cosa centrata sulle esigenze manifestate dai consumatori (ecco che ci vuole una visione customer centric per essere sempre allineati con il proprio pubblico!) e che per seconda cosa sia sempre coerente, ovvero si presenti uniforme e senza soluzione di continuità nell’affollamento di devices e touchpoints collegati all’avvento della rivoluzione digitale.
Gli algoritmi di AI lavorano senza sosta per estrapolare dati e riescono, con gli insights raccolti in tempo reale sul comportamento d’acquisto dell’utenza, a migliorare di volta in volta l’esperienza fornita con il veicolare messaggi personalizzati (si sa che la personalizzazione aumenta l’engagement!). Il dato è il carburante – qualcuno lo chiama il “new oil” – che alimenta l’AI. Più dati si ha, più l’Intelligenza Artificiale riesce attraverso l’apprendimento automatico a imparare e ad adattarsi all’utente che si trova di fronte.
Quando l’AI ci fa una figura poco bella
Per quanto l’AI sia brava nell’analisi di enormi risme di dati e sappia ricercare modelli e correlazioni invisibili all’occhio umano (oppure ricavabili solo dopo diversi effort in termini di tempo ed energie), senza un training costante rischia di prendere terribili cantonate. Umberto Basso di AKQA all’evento “Strategie di creazione del valore e Content Intelligence: misurare è possibile” ha citato l’esempio dell’AI che non riesce a identificare la foto di una persona di nazionalità cinese perché la indica come “con gli occhi chiusi”.
E non finisce qui, è piuttosto lunga la lista di esempi pubblici e imbarazzanti di AI andati a male. I limiti degli algoritmi si sono visti nell’app Photos di Google dove le persone di colore venivano taggate come “gorilla” e ancora oggi il problema non è stato risolto, dato che al termine “gorilla” il motore di Google Photos non dà risposta. I rischi di alterare la percezione che l’utenza ha nei confronti del Brand (“gorilla” è un insulto gravissimo!) fanno capire che la posta in gioco è altissima.
Poi se consideriamo come ormai i motori AI siano incorporati in una grande varietà di organizzazioni e influenzano i processi decisionali, un caso come quello della censura fatta da Facebook sulla nota foto premio Pulitzer che ritrae una bimba nuda in fuga dalle bombe al napalm durante la guerra in Vietnam, fa pensare a quanto essi possano influenzare la nostra stessa cultura.
C’è chi dice che il futuro dell’AI e dei suoi benefici sia legato direttamente alla qualità dei dati. Se i motori AI imparano dai dati, vuol dire che essi sono troppo pochi oppure non sono accurati. Di conseguenza, se i dati sono di qualità discutibile, lo saranno anche i risultati e le analisi prodotti dall’AI per cui diventa prioritario concentrarsi sull’affidabilità dei dati su cui si forma l’AI.
In uno scenario in cui si parla sempre di più di “algorithmic accountability”, cioè il trasferire la responsabilità del problema su chi sviluppa l’algoritmo, la Content Intelligence, ovvero l’Intelligenza Artificiale applicata ai contenuti, dà il vantaggio innegabile di raccogliere dalla fruizione dei contenuti dati sugli interessi dei consumatori che sono di Prima Parte (First Party Data), cioè informazioni sull’audience che sono estrapolate direttamente e in tempo reale dai touchpoints con cui comunica il Brand e che sono di diretta proprietà dell’azienda.
Questo ci assicura che i motori AI lavorino su dati di valore che sono correlati senza se e senza ma all’utenza e che sono costantemente aggiornati: in questo modo le iniziative di Marketing automation che si “tarano” sulla single customer view (una snapshot dell’intero percorso di visualizzazione dell’utente in cui i dati raccolti dalla CI vengono “arricchiti” a CRM e ad altri sistemi di gestione dati) restituiscono una customer experience personalizzata che risponde realmente alle aspettative dei nostri consumatori.
L’evoluzione successiva, l’Augmented Intelligence
Umberto Basso di AKQA ha sottolineato l’importanza del concetto di Augmented Intelligence, un processo in cui l’AI viene vista come uno strumento capace di potenziare e aumentare le capacità umane ma senza che ne venga mai meno il controllo da parte dell’azienda che la integra nei suoi sistemi. I team di Marketing, infatti, devono assicurare di “allenare” gli algoritmi avendo ben chiara la vision finale, ovvero l’offerta della migliore customer experience.
Un ruolo importantissimo gioca in questo contesto la tassonomia, ovvero il dizionario di tag su cui si basano i motori di AI per organizzare, analizzare e classificare automaticamente ciascun asset digitale del Brand. Deve esserci, in questo caso, un lavoro precedente di definizione della tassonomia, in modo da capire, se si vuole che l’AI compia in maniera automatica al meglio queste operazioni, quali tag sono più appropriate per indicare i prodotti o i servizi relativi alla propria azienda. Questo è proprio uno dei compiti del Content Intelligence Manager, quella figura cross-dipartimentale che si occupa di evolvere i processi di Content Management in modo da assicurarsi i benefici della CI.
Con THRON, il Dam Intelligente (integra al suo interno la CI), la tassonomia ufficiale da dare in pasto ai motori AI può essere stabilita dagli stessi uffici di Marketing e Sales così che il tagging avvenga rispettando al 100% la strategia aziendale. E il vantaggio legato a questa funzionalità (si chiama “Tag center”), comporta che si possano inserire a mano a mano dagli utenti le varie tag con la possibilità di modificarle o accorparle (vengono uniformate quando si riferiscono allo stesso contenuto) perché, una volta cambiate, in ogni caso la modifica si propagherà in automatico su tutti i contenuti relativi senza perdere i dati storici accumulati fino a quel momento.
A questo punto, con la certezza che l’AI sta organizzando al meglio i contenuti, sarà più semplice per i Marketers concentrarsi sull’analisi dei dati relativi alla fruizione di tali contenuti e sui processi di ottimizzazione delle strategie editoriali del proprio Brand in modo da aumentare engagement e conversioni.